Il sonoro nello spot pubblicitario

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Il sonoro nello spot pubblicitario: tipi, funzioni e contributi di senso

 

di Mario Campanino

 

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Premessa

 

In campo pubblicitario televisivo, non sempre all’idea di colonna sonora corrisponde realmente, nella concreta realizzazione dello spot, la presenza di un brano musicale compiuto. Può trattarsi di un frammento musicale già noto, di un brano composto per l’occasione, di un sapiente mix di suoni e rumori derivanti dal meccanismo o dal plot, o ancora di una mera “composizione” di rumori e suoni ambientali o, all’estremo, di una fascia di silenzio. Per questo motivo, prima di entrare nelle riflessioni che qui si intendono proporre, converrà soffermarsi sui due presupposti che dovrebbero servire, lo speriamo, a rinforzarne la validità. Innanzitutto, l’adozione della prospettiva che non considera musicalmente rilevante la separazione tra suono e rumore, pur nella consapevolezza di una valenza culturale e storica di questa differenza. Se non fossero bastate le esperienze provocatorie del Futurismo italiano del primo Novecento (si deve al musicista e poeta Luigi Russolo addirittura la costruzione, in quegli anni, di una serie di strumenti da lui stesso denominati “intonarumori”), tutto il dispiegarsi di ricerca e sperimentazione dagli anni Cinquanta in poi ha affermato infatti l’identità dei due partiti, che furono unificati, nella teoria e nella pratica, sotto la onnicomprensiva categoria di “oggetto sonoro”.[2] In secondo luogo, e di conseguenza, quel che qui ci indirizza è la fede in quel potere comunicativo che il suono (e si legga d’ora in poi questo non come “suono musicale” ma come “qualsiasi suono, compresi i rumori”) ha di per sé, indipendentemente da tutti i rimandi simbolici o iconici cui può dar luogo, da tutte le associazioni tra suoni e altri fatti culturali, storici e sociali del mondo (culture distinte, epoche, società e sottogruppi sociali, luoghi, momenti specifici della vita di ogni singolo individuo), insomma, in quello specifico sonoro della comunicazione musicale che tanto si desidera portare alla luce (o, almeno, è questa la più viva intenzione dello scrivente) e tanto si tende poi a confondere con tutto il resto.

Ancora, inevitabile premettere che questo tentativo di classificazione, se vuole essere un tentativo di classificazione funzionale, deve assumere un quadro di funzioni almeno iniziale, di confronto, che la colonna sonora può assolvere nel contesto e a supporto del messaggio pubblicitario, e dunque urge esplicitarlo.

L’assunto potrebbe essere così descritto: compito della colonna sonora è, in ogni caso, potenziare le caratteristiche che, almeno sulla carta, devono contraddistinguere un buon annuncio pubblicitario. A questo scopo può risultare utile confrontarsi con il modello di Fabris delle quattro “i” e delle quattro “c”.[3] In questo modello, che è più il frutto di un’osservazione empirica che una teoria, sono indicate le principali variabili ritenute fondamentali nel processo comunicativo instaurato dalla pubblicità: impatto, interesse, informazione, identificazione, comprensione, credibilità, coerenza, convinzione. Quel che vogliamo chiederci, dunque, è se le singole caratteristiche possano essere in qualche modo influenzate dalla colonna sonora e, se possibile, in quale misura, ben sapendo che i vari aspetti possono essere considerati singolarmente solo in sede analitica, allorché in realtà tutte queste caratteristiche, e tutte queste funzioni, possono essere presenti in vario modo e contemporaneamente.

In uno dei suoi lavori di maggior diffusione, Suoni emozioni significati,[4] Michel Imberty conclude la sua ricerca di una semantica psicologica della musica indicando quei tratti del flusso sonoro che indurrebbero nell’ascoltatore il formarsi di significati e sensi: quello inconscio delle emozioni primordiali e quello formale della complessità, velocità, ecc. di un brano musicale. Per quanto si possa non concordare pienamente con alcuni spunti specifici contenuti nel suo lavoro, è indubbio che questa conclusione sia, invece, tanto semplice quanto condivisibile quando mette in gioco – stringendo ancora di più – le caratteristiche del soggetto e quelle dell’oggetto, la storia personale, sociale, psicologica del fruitore e l’aspetto esteriore del flusso sonoro che sta ascoltando. Ora, se tutto quanto riguarda l’ascoltatore supera ad un tempo le nostre capacità e gli scopi stessi di questo scritto, dal lato delle caratteristiche dell’oggetto quel che ci viene chiesto è di esplicitare gli argomenti che permettono, almeno nella nostra prospettiva, di descrivere la configurazione sensibile del flusso sonoro cui l’ascoltatore è – più o meno intenzionalmente – esposto, e che determina i contributi di senso che il sonoro apporta al messaggio audiovisivo nel suo complesso. Ed ecco da questo scaturire, dunque, la nostra proposta teorica iniziale, di carattere davvero generale e applicabile – a nostro avviso – proprio a tutto il mondo dei suoni (e dunque, sicuramente, anche a quel piccolo sottomondo delle colonne sonore di spot pubblicitari). La proposta si fonda sulla convinzione che tutto quel che possiamo ascoltare si debba inserire in non più di tre dimensioni di esistenza dell’opera (costrutto) musicale (o, più generalmente, sonoro): la dimensione della sonorità pura e semplice, la dimensione della forma cui uno o più suoni possono dare luogo, e infine la dimensione dell’interoggettività, ossia dei rapporti che ogni oggetto sonoro può intrattenere con altri oggetti del mondo esterno.

Intento ultimo di questo lavoro sarà, dunque, mostrare come l’esplicitazione delle linee guida che orientano il nostro approccio descrittivo – rispetto a queste tre dimensioni (descrizione tridimensionale dell’opera musicale?) – equivalga a potere analizzare e conoscere il flusso sonoro in relazione all’induzione o espressione di sensi e significati in campo musicale.

 

2

Le dimensioni del sonoro

 

Quel che dobbiamo affrontare ora, dunque, è uno sforzo orientato alla selezione di quelle caratteristiche del sonoro che – prima di tutte – è opportuno considerare al fine di precisare in che modo esso possa contribuire alla costruzione del senso globale del messaggio audiovisivo pubblicitario.[5] Questo sforzo si muoverà secondo le tre dimensioni annunciate in Premessa: la dimensione della sonorità, quella delle articolazioni e infine quella dei rimandi interoggettivi. Va precisato che il riconoscimento dei tratti che stiamo per elencare può essere riferito a frammenti più o meno ampi – in senso temporale – dell’oggetto sonoro considerato (andando da piccole porzioni di esso all’intero oggetto), e che – nel caso di più suoni prodotti in contemporanea[6] – può riferirsi ad uno solo degli elementi ascoltati (la voce, in un contesto di voce accompagnata da chitarra), a insiemi di elementi (la batteria e il basso elettrico, in una base musicale pop in cui questo insieme contrasta con le chitarre e le tastiere) o all’insieme complessivo (orchestra sinfonica in un forte a chiusura di un concerto per pianoforte e orchestra). La scelta di procedere da considerazioni globali a rilievi man mano sempre più particolari dipenderà dalla profondità che si vorrà dare a questo lavoro di analisi.

 

La dimensione della sonorità

 

La sonorità riguarda gli aspetti legati alla materialità del suono. Sarà più facile parlarne partendo da un esempio legato ad un altro tipo di materialità. Immaginiamo di essere di fronte ad una sedia. Di questa sedia posso percepire il colore, la grandezza, la pesantezza del materiale (o dei materiali) di cui è costituita, la porosità, la maggiore o minore opacità delle superfici e la loro ruvidezza. In aggiunta, posso anche riconoscere che è di legno, posso addirittura sapere che si tratta di legno di noce, e questo è già un processo differente, che attiene più alla sfera cognitiva che a quella percettiva (fa ricorso, infatti, a un bagaglio di preconoscenze del soggetto) ma comunque rimane nel campo della materialità – e mi aiuta a collocare l’oggetto nell’insieme di oggetti che hanno qualche tratto comune con esso. Secondo una selezione del tutto analoga posso dunque considerare la materialità del suono, andando a valutare le seguenti tre variabili principali:

 

La tessitura. Fa riferimento a quel parametro del suono che viene chiamato, nella teoria musicale tradizionale, altezza. È la caratteristica che ci permettere di distinguere un suono acuto da un suono grave, ad esempio il cinguettio degli uccellini in un bosco dal rombo del tuono. In un pianoforte, i suoni più acuti corrispondono ai tasti posti sulla destra mentre i suoni più gravi sono prodotti dai tasti più a sinistra. È una caratteristica determinata, per gran parte, dalla grandezza del corpo che, vibrando, produce il suono (nel pianoforte, infatti, le corde a sinistra sono progressivamente più lunghe e più spesse di quelle a destra) e fisicamente corrisponde alla frequenza di vibrazione della sorgente sonora (numero di vibrazioni al secondo). Si tratta naturalmente di una dimensione relativa: la definizione di grave o acuto non è assoluta ma valida se ha un termine di riferimento, ad esempio un altro suono. Posso dunque affermare che un suono è più acuto o più grave di un altro suono ascoltato prima, ma indubbiamente si potrebbe affermare che il cinguettio degli uccellini è “oggettivamente” acuto – e quello del tuono “oggettivamente” grave – in quanto si pongono effettivamente agli estremi opposti della gamma di suoni che siamo quotidianamente abituati a percepire. Per l’esperienza umana comune, dunque, esiste una possibilità di oggettivazione di questi termini.

Il termine tessitura, qui proposto, indica – più che l’individuazione dell’altezza precisa di ciascun suono componente il flusso sonoro ascoltato – la gamma (la fascia) di altezze ascoltate, perché si suppone che nella gran parte dei casi si sia in presenza di un fascio di più altezze in contemporanea, e non di una sola altezza per volta (più suoni assieme, sovrapposti, e non un solo suono). Si potranno quindi individuare tessiture acute, medie, gravi; limitate a zone precise dell’intera gamma o che occupano più fasce in modo sfumato; tessiture ampie o ristrette.

 

L’intensità. L’intensità, parametro che viene individuato con lo stesso nome anche nell’ambito della tradizionale teoria musicale, dipende dall’ampiezza della vibrazione sonora e determina quello che comunemente chiamiamo il “volume” del suono. Il concetto di intensità può rimandare a quello di forza, giacché di solito si parla di suoni “forti” e suoni “deboli” (in musica e sulle partiture di solito i termini usati sono forte e piano). All’ascolto di un flusso sonoro può essere facile stabilire se l’intensità sia alta o bassa (anche in questo caso siamo in presenza di indicazioni relative con possibilità di oggettivazione nel reale), ma sarà più interessante andare a sentire le differenze di intensità di suoni in insiemi complessi, con i giochi di predominanza di alcuni suoni su altri, dove il compositore (o l’esecutore) guida la nostra percezione (decide cosa vuole farci sentire di più) nel ritrovamento di figure e sfondi sonori.

 

La rugosità. La rugosità è uno dei tratti attraverso cui può essere descritto quello che, nella terminologia teorica tradizionale, si chiama timbro del suono. Stranamente, non è facile trovare nella bibliografia, sterminata, che si occupa delle caratteristiche del suono, una risposta precisa alla domanda “cos’è il timbro del suono”. La definizione più comune individua nel timbro il “colore del suono”, ma si potrebbe dire anche “la qualità formale della superficie sonora” (l’impronta) che, alla percezione, consente di attribuire suoni di uguale altezza e intensità a fonti sonore diverse (un flauto, un clarinetto, un oboe; oppure la voce di Laura, di Anna ecc.). Ancora, il timbro è talvolta definito come “multidimensionale”, nel senso che non offre una scala unica di grandezze su cui misurarne il valore (a differenza di altezza e intensità).

La rugosità – termine che difficilmente si troverà sui manuali di teoria del suono – è la qualità che in questo contesto si propone di valutare e permette anche una sistemazioni più o meno esatta dei timbri lungo una scala di grandezze. Essa corrisponde alla “grana del suono”, ed è percepita, sul versante delle sensazioni uditive, esattamente come al tatto è possibile percepire la rugosità di una superficie (nella direzione grana grossa ® grana fine, si potrebbero ad esempio elencare: pietra di tufo, legno, metallo). Dal lato delle percezioni sonore, il suono di una chitarra elettrica distorta sarà più rugoso di quello di un violino, che a sua volta sarà più rugoso di quello di un flauto (questo in senso molto teorico: l’esecutore può fare molto per variare i valori di rugosità del proprio suono). Ma la rugosità che ci interessa è anche quella prodotta da più suoni prodotti in contemporanea: senza andare verso esemplificazioni complesse (chiusura di un brano da parte di una tipica formazione strumentale hard rock; forte di orchestra sinfonica) basterà pensare a un cluster pianistico (insieme di tasti premuti in contemporanea con la mano aperta o col pugno chiuso) prodotto nella parte sinistra della tastiera.

Secondo questo orientamento, si potrà così individuare rugosità grosse o fini (grandezza dei grani) e alte o basse (intensità “atomica” dei grani, cioè il rilievo che ogni grano ha, percettivamente rispetto all’intensità media del frammento sonoro).

 

La dimensione delle articolazioni

 

Questa dimensione riguarda tutto quanto si può dire sulla forma o la struttura del sonoro e quindi, stringendo, sulle relazioni che almeno due suoni intrattengono reciprocamente.[7] Tornando all’esempio della sedia, il mio sguardo su di essa può individuare un piano orizzontale e di forma trapezoidale, quattro elementi di forma cilindrica – in cui la dimensione della lunghezza è preponderante – posti verticalmente sotto il piano precedentemente descritto in corrispondenza dei quattro angoli, un piano verticale posto in corrispondenza di uno dei lati perimetrali del piano orizzontale (il lato più piccolo dei due paralleli). Questa la chiamerei una descrizione formale. Potrei non sapere ancora, a questo punto, di aver individuato, nell’ordine: la seduta, le gambe e lo schienale di una sedia. Se lo so, allora vuol dire che conosco le funzioni di ciascuno degli elementi precedentemente descritti (e la funzione dell’intero oggetto), dunque di esso posso fare anche una descrizione strutturale: le gambe sostengono il piano orizzontale, che sostiene chi ci si siede sopra, e il piano verticale sostiene la schiena, che vi si poggia.

Anche nel caso delle articolazioni del suono posso individuare degli elementi che servono a identificarle, e sono:

 

La continuità. Riguarda la presenza o assenza di impulsi all’interno del flusso sonoro, ed è legata al parametro dell’intensità. Repentine variazioni di intensità a brevi intervalli di tempo creano un’immagine sonora discontinua, mentre la tenuta di intensità costanti per lunghi tratti (addirittura per l’intera durata del brano) crea immagini sonore continue. Non è così influente che le intensità di cui si tratti siano piuttosto alte o basse: si potrà avere il caso di una intensità bassa ma continua e di un’intensità alta con tratti di discontinuità. La continuità non è legata al numero di suoni uditi: si potrà udire un gran numero di suoni di intensità omogenea (ad esempio, un veloce arpeggio di chitarra) che risulterà continuo, e una serie anche “rarefatta” di suoni di intensità variabile che darà una forte impressione di discontinuità (questa osservazione si lega a quelle fatte più avanti riguardo alla densità sonora). Inoltre, è possibile che in un segmento sonoro troviamo diverse fasce sonore sovrapposte che presentano continuità di grado differente: è il caso tipico, in un contesto pop, di una sezione ritmica di percussioni associata ad un “tappeto” di tastiere.

La continuità può essere considerata una forma di “amplificazione” della rugosità, su scala molto più estesa, o, con un’altra formula, una rugosità di secondo livello. Anche la rugosità, infatti, è una discontinuità, ma a livello microscopico di superficie sonora (grano), mentre la discontinuità di articolazione ha dimensioni (parliamo sempre di intervalli temporali) molto più ampie. Con un’analogia, diciamo che, a voler camminare sul tessuto sonoro, per la rugosità si può incontrare più o meno attrito, ma per la discontinuità si inciampa!

 

La densità. La densità consiste nel numero di suoni distinti uditi nell’unità di tempo. Più alto è questo numero, più denso risulterà il tessuto sonoro, in maniera del tutto analoga a quanto avviene per altri tipi di densità: di popolazione (numero di abitanti per km quadrato, cioè l’unità di superficie adottata), di particelle gassose (numero di molecole nell’unità di volume).

Un fattore problematico, nella definizione di cosa vogliamo intendere con densità, è l’identificazione di quelli che abbiamo chiamato “suoni distinti”, che non sempre corrispondono a una singola nota o un singolo suono. Un accordo, dunque una sovrapposizione di suoni diversi, può essere considerato un unico suono distinto, così come il cluster pianistico a cui abbiamo accennato più sopra. Dunque, suono distinto sarà quello che a livello percettivo, e nel contesto dell’economia globale di scrittura del brano considerato, risulterà essere un’unità sonora. Vi sono anche alcuni casi limite: casi in cui due suoni consecutivi (molto brevi e ravvicinati) possono dare la sensazione di un unico suono distinto, e casi in cui due suoni del tutto sovrapposti (ma magari di altezze molto diverse e tendenti a non “fondersi” percettivamente) possono dare la sensazione di due unità sonore distinte e creare così l’effetto di un aumento di densità.

Le identità melodiche. Si ha identità melodica quando due o più suoni, a causa delle proprie caratteristiche formali e della reciproca collocazione all’interno del tessuto sonoro, tendono a costituirsi in “figura” sonora. Tale costituirsi è regolato dalle leggi di Gestalt che governano lo stesso fenomeno in ambiti diversi (ad esempio quello visivo): prossimità, somiglianza, buona chiusura, continuazione. Alcuni suoni ravvicinati e di breve durata, ad esempio, preceduti e seguiti da suoni sensibilmente più lunghi, daranno la sensazione di appartenere alla stessa figura sonora, e tenderanno ad orientare la percezione nel riconoscimento di altre figure (che seguono o che precedono). Oppure, una serie di suoni aventi altezze adiacenti o molto vicine tenderà a distaccarsi da suoni più lontani lungo la direzione della frequenza. Al contrario, una serie di suoni che eviti di soddisfare le leggi sopraelencate non favorirà una segmentazione percettiva in figure del tessuto sonoro e tenderà a orientare la percezione nel senso di un ascolto meno “costruttivo” e orientato. Inoltre, le leggi menzionate possono entrare in sinergia o in concorrenza tra loro.

Occorre precisare che l’identità sonora non richiede necessariamente la ripetizione: si può avere il costituirsi di una figura anche se essa compare per una sola volta all’interno del tessuto sonoro, ma naturalmente l’eventualità che si ripeta ne rinforzerà l’identità, oltre che le possibilità di riconoscimento, e rappresenterà una sorta di costituzione identitaria di secondo grado.

 

Le identità ritmiche. Il costituirsi a livello percettivo di identità ritmiche è regolato dalle stesse leggi di Gestalt già elencate per le identità melodiche. In questo secondo caso si parlerà naturalmente non tanto di suoni dotati di altezze determinate e durate più o meno lunghe quanto di impulsi e, dunque, distanza temporale tra impulsi, indipendentemente da quale sia l’oggetto sonoro da cui questi impulsi derivano. In effetti, ogni identità melodica generalmente include un’identità ritmica, per cui la seconda può essere considerata una sorta di astrazione della prima. Anche a questo caso si possono applicare le riflessioni già fatte riguardo alla ripetizione. In più, trattandosi di un’astrazione dell’elemento temporale, si può intuire quanto le possibilità di ripetizione dell’identità ritmica siano più complesse: la figura ritmica potrà trovarsi implicata dapprima in una linea percussiva, poi in una di accompagnamento, poi in una linea melodica di primo piano o ancora nella voce umana semplicemente parlata. Ciò suggerisce quanto ampia sia la potenzialità aggregante del contesto ritmico di un brano, e quanto il contravvenire a determinati usi del “galateo” ritmico occidentale possa avere avuto l’effetto di straniamento che conosciamo.[8]

 

La sintassi. Per “sintassi” del tessuto sonoro si intende il modo in cui, ad un livello più ampio di quello delle eventuali figure e comunque dei singoli suoni, il flusso sonoro è (o meno) organizzato. Sono tre i procedimenti sintattici che qui è opportuno considerare:

1) La ripetizione. Per cominciare valgano gli accenni già fatti riguardo alle identità melodiche e ritmiche. Occorre aggiungere che a livello di sintassi i procedimenti possono essere individuati su scale diverse: vi può essere ripetizione immediata o ritardata di singole figure, gruppi di figure o intere sezioni del brano. Sarà opportuno evidenziare come le possibilità di riconoscimento di alcuni procedimenti sintattici è fortemente legata alla presenza di identità, che hanno maggiori possibilità di essere ricordate (un più alto grado di memorabilità) a distanze di tempo più ampie: le possibilità, per la memoria, di riconoscere il ritorno di una serie “slegata” (non aggregatasi in identità) di suoni, dopo un intervallo anche solo di, diciamo, 20 secondi, sono bassissime, mentre la presenza di identità permette il riconoscimento e la ricostruzione degli snodi sintattici anche a intervalli di tempo molto più estesi.[9]

2) Lo sviluppo. Consiste nella riproposta e rielaborazione di elementi del tessuto sonoro già noti, al fine di esplorarne le possibilità di trasformazione e interazione reciproca (nel caso si tratti di due o più elementi) e di direzionare il procedere del flusso sonoro. È sempre il risultato di un gioco combinato di ripetizione (elementi di somiglianza) e variazione (elementi di differenza), dunque di riconoscimento di tratti già noti e individuazione delle differenze che ne marcano l’evolversi. Anche in questo caso la presenza di identità melodiche o ritmiche può rivelarsi necessaria, ma – non volendo riferirci qui alla nozione “classica” di sviluppo, che lo imbriglia all’interno di un preciso contesto storico – va precisato che esso, nel senso ampio che è opportuno riconoscergli, può far leva su elementi timbrici, dinamici (intensità), di tessitura, densità ecc. Nel caso della presenza di identità, si avrà sviluppo se esse tenderanno a comparire in maniera più ravvicinata – addirittura parzialmente sovrapposta – o distanziata, se saranno costituite da suoni di durata maggiore o minore, in tessiture differenti, ecc. In caso di assenza di identità, il susseguirsi di tratti del tessuto sonoro aventi densità sonore o intensità crescenti (o decrescenti), ad esempio, o un timbro caratterizzato da gradi di rugosità che si aggiungono (o sottraggono), saranno sufficienti a farci parlare di sviluppo (anche se in questo caso, ovviamente) sarà più difficile individuarlo.[10]

3) La giustapposizione. È legata all’individuazione di zone consecutive del costrutto sonoro aventi uno o più elementi di differenziazione, i quali marcano un procedere del discorso meno direzionale (con un fine meno univoco) di quello proposto dallo sviluppo.[11] Parlando di giustapposizione, la dialettica ripetizione/variazione vede il predominio della seconda sulla prima. Occorre fare qui una precisazione rispetto al termine “variazione”: nell’ambito della teoria musicale accademica esso indica un procedimento secondo cui una figura (identità) generalmente melodica subisce dei lievi cambiamenti (ritmici, dinamici, ecc.) restando sempre però riconoscibile e riconducibile, in ogni sua diversa apparizione, alla forma originaria; nel nostro caso intendiamo, in senso più ampio, il fenomeno del cambiamento applicato ad elementi e livelli diversi, che può consistere anche nell’assenza assoluta di elementi di somiglianza. Così come per lo sviluppo, anche nel caso della giustapposizione la presenza di identità può favorire il riconoscimento della discontinuità tra diverse fasi del discorso sonoro, dunque il passaggio dall’una all’altra; ma ugualmente essa può essere riconosciuta quando siano percepibili più zone reciprocamente differenziate ma internamente omogenee rispetto, ad esempio, alla densità, alle dinamiche, ecc.

 

La punteggiatura. Particolari configurazioni del tessuto sonoro possono suggerire il presentarsi dei differenti momenti topici in cui la narrazione sonora può articolarsi: l’apertura, la chiusura (parziale o definitiva), la transizione (nella teoria musicale tradizionale si parla spesso di “ponte”), il passaggio – attraverso la demarcazione di un confine netto – tra una zona e l’altra, e vari altri a livelli formali sempre più di dettaglio (dunque su scale via via più ristrette). L’insieme di questi momenti topici costituisce, appunto, quella che può essere chiamata la punteggiatura del discorso musicale, ed ha la funzione – ancora! – di orientare l’ascolto e il ritrovamento, a livello percettivo e cognitivo, del senso formale del costrutto sonoro. Per gli scopi di questo scritto, e considerando che l’oggetto delle nostre riflessioni – la colonna sonora dello spot pubblicitario – raramente supera la durata di 60 secondi, basterà considerare in modo più approfondito i primi due tra gli elementi citati:

1) L’apertura. Sono due i principali modelli di apertura più diffusi, ed entrambi fanno leva, in modo diverso, sulla creazione di attese nell’ascoltatore. Il primo ha qualcosa in comune con un’apertura di sipario piuttosto veloce, ed è sempre costituita di uno o più “segnali” di avvio, proprio come lo sparo segnala l’inizio della gara. In ambito classico uno degli esempi più espliciti è l’inizio della Terza Sinfonia di Beethoven, in cui due poderosi accordi brevi e forti, eseguiti dall’orchestra, precedono e annunciano l’inizio del discorso musicale vero e proprio (l’entrata dei temi, i loro sviluppi, ecc.) e attivano l’attenzione dell’ascoltatore. In ambito pop, si troveranno numerosi esempi in cui una breve “stacco” (break) di batteria precede l’entrata in scena degli altri suoni di accompagnamento. Il secondo modello è assimilabile, invece, ad un disvelamento lento e per gradi del discorso sonoro: tipicamente sarà l’entrata di uno strumento dopo l’altro fino al raggiungimento (che può essere però anche disatteso) di una completezza finale (completezza del tutto relativa, legata alla singola opera, al genere, allo stile, ecc.).

2) La chiusura. Anche in questo caso occorrerà esplicitare almeno due casi tipo. Il primo consistente – analogamente al primo modello di entrata – in una chiusura “segnalata”: accordi ripetuti dell’orchestra sinfonica, cadenze ritmiche della batteria in ambito pop, preceduti generalmente da un crescendo di dinamiche (volumi) e agogiche (velocità), stretti (ripetizioni ravvicinate di frammenti melodico-ritmici), da un ispessirsi della rugosità, in modo da marcare in maniera netta il raggiungimento finale del segnale di chiusura e l’immediato silenzio successivo. Il secondo – più simile al modello di entrata per disvelamento, ma al contrario – costituito da una chiusura più graduale del discorso, in cui la parte finale dell’oggetto sonoro è una sorta di coda in cui i parametri sono trattati per diminuzione (minore volume, minore velocità, minore rugosità, minori complessità sul piano delle articolazioni): è il caso di molti brani pop in cui, a forma musicale ormai esaurita, dopo tutte le strofe e i ritornelli possibili, al cantante rimane lo spazio per pronunciare ancora brevemente, quasi nel silenzio e a voce flautata, il suo messaggio d’amore o disperazione.

 

La dimensione dell’interoggettività

 

Questa terza dimensione riguarda la conoscenza dell’oggetto sonoro come segno, e dunque ogni tipo di rimando che un oggetto sonoro può fare ad un qualcosa d’altro – un oggetto, una situazione, un evento, un sentimento ecc. – che non sia l’oggetto sonoro stesso. È la dimensione propria della semiotica, su cui molti autori hanno dato ipotesi di segmentazione e classificazione diverse. Quella qui proposta deriva direttamente dalla tripartizione di Peirce (a cui molte delle classificazioni precedentemente citate si rifanno più o meno direttamente) e per la sua semplicità indirizza in modo chiaro ad una prima essenziale conoscenza della natura segnica del suono. Essa propone una classificazione del segno musicale secondo tre categorie:

 

L’icona. Per Peirce il segno iconico[12] è quello che si fonda su una relazione tra una configurazione materiale ed un oggetto che hanno una proprietà in comune, o meglio, che sono simili in qualche aspetto. In questo senso il segno-icona è motivato, cioè il representamen non si riferisce al suo oggetto per convenzione. Il segno sonoro, dunque, è iconico quando la configurazione del suono, così come l’abbiamo descritta sinora, imita un suono del mondo esterno e rimanda, in senso più ampio, all’oggetto cui quel suono può essere ricondotto. L’esempio classico è quella Primavera di Vivaldi in cui, dopo la famosa apertura dell’orchestra d’archi, il violino solo imita il cinguettio degli uccellini.

Sebbene lo stesso Peirce, che peraltro non si è mai occupato direttamente di semiotica musicale, nei suoi rari esempi attribuisca ai suoni funzioni segniche prevalentemente iconiche, come vedremo non è nel segno iconico che la musica fonda la parte più importante delle sue possibilità di significazione. Tuttavia la presenza di segni musicali iconici può essere estremamente efficace nel determinare l’intera gamma di significati cui un brano musicale può rimandare: il segno iconico del cinguettare che troviamo nell’esempio appena citato, infatti, può rimandare – attraverso altri meccanismi che andremo ora ad approfondire – a dimensioni della significazione più ampie e generali (il canto degli uccelli → la primavera → il risveglio → la luminosità, ecc.).

 

Il simbolo. Simbolo per Peirce è quel segno la cui significazione è convenzionalmente stabilita. Nel caso del simbolo, dunque, la relazione tra segno e oggetto è del tutto arbitraria, quindi non dettata da elementi di somiglianza come nel caso dell’icona. Nel campo dei suoni, simbolico è ad esempio il corno da caccia o la tromba che in una caserma suona il Silenzio. Simbolico è anche il meccanismo di significazione per cui l’Inno di Mameli designa l’Italia e tutta quella serie di realtà nazionali ad essa correlate: team sportivi, personalità pubbliche, figure istituzionali, ecc. Ma che succede se il corno da caccia è udito, ad esempio, inserito nel discorso musicale di una sinfonia classica o romantica? Siamo ancora nell’ambito puro del simbolo? Quel che accade, è che in prima istanza il segnale di caccia udito (che in questo caso non è un segnale di caccia, perché nessuna battuta venatoria sta per cominciare) è icona di un vero segnale di caccia, e solo in seconda battuta diventa simbolo della caccia, della natura, della competizione, ecc. Questa circostanza ci fa già intuire che le tre sfere della significazione musicale che stiamo indagando – icona, indice e simbolo – non sono separate che idealmente, e si trovano piuttosto quasi sempre insieme, montate “a strati” nel processo di comunicazione che ha luogo quando si ascolta un flusso sonoro.

 

L’indice. L’indice è un segno che sta in una relazione diadica contigua con il suo oggetto, legame che si fonda su una prossimità spaziale e/o temporale. Esso permette, quindi, di inferire l’oggetto o il processo che rappresenta. Caratteristica della relazione indicale, rispetto a quella segnica, dunque simbolica, è che attraverso di essa avviene il rimando a un oggetto (e con ciò il trasporto di un messaggio) che è motivato dalle circostanze in cui avviene la comunicazione, dalla scena comunicativa, con le sue coordinate temporali, spaziali e il suo centro (che corrisponde al punto in cui l’indice occorre). È indice, ad esempio, il tuono quando indica che il temporale sta arrivando o sta passando molto vicino a noi. Questa relazione diadica tra quella che potremmo chiamare espressione (il tuono) e la situazione reale cui essa è collegata (il temporale che sta arrivando), deve fondarsi su dati di fatto, e ovviamente ciò presuppone che noi sappiamo, attraverso processi esperenziali, percettivi, cognitivi, emozionali, che questa relazione esiste (o almeno esiste in un numero significativo di casi): la relazione non può essere invece arbitraria, perché ciò ci riporterebbe nell’ambito della significazione simbolica.

Secondo Vladimir Karbusicky,[13] è l’indice il modo di significazione privilegiato dalla musica, che principalmente non rappresenta (funzione iconica), non designa (funzione simbolica) ma esprime (funzione indicale). Come esempio del vario stratificarsi delle tre funzioni, e come spiegazione della preminenza della funzione indicale sulle altre, egli propone una breve considerazione riguardante la Pastorale di Beethoven:

 

Un verso di cucù è un’immagine acustica dell’uccello, dunque un’Icona. Ma può essere percepito anche come un Indice: ‘Ecco la primavera!’ E in un altro contesto può simboleggiare la natura in generale; così è nella sinfonia Pastorale di Beethoven: ma egli [il verso di cucù] indicizza con un’altra voce della natura le esperienze, le condizioni spirituali di Beethoven, specialmente quando tutto risuona in un’atmosfera piena di nostalgia; così la funzione iconica, che consiste nell’isoformismo dell’imitazione, viene subordinata alla funzione indicale; e che questa sia dominante è l’intenzione del compositore («Più espressione di sentimenti che pittura»).[14]

 

Sembrerebbe a questo punto che parlare di espressione (di sentimenti, di emozioni), in ambito sonoro, non equivalga necessariamente a dire che il suono significa quel sentimento o quell’emozione. Ma questa è proprio una caratteristica dell’indice, come Peirce ha precisato molti anni dopo le sue prime formulazioni teoriche: «Un indice non ha nulla a che fare con i significati: esso deve portare l’ascoltatore a condividere l’esperienza del parlante mostrando ciò di cui egli sta parlando.»[15]

 

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I tipi di sonoro

 

Una breve rassegna dei principali tipi di sonoro che si trovano generalmente negli spot pubblicitari servirà a ritagliare, nel campo dei sonori possibili in ambito audiovisivo (davvero tanti), quelle forme e le loro caratteristiche che qui saranno oggetto di riflessione: il jingle (con la sua variante maxi), il sonoro più esteso di tipo decorativo o da impatto, il sonoro limitato o assente (che spesso, in modo solo apparentemente paradossale, può anch’esso caricarsi di significati ed effetti nel contesto della comunicazione audiovisiva).

 

Il jingle. Probabilmente la forma più “semplice” ed essenziale di musica in pubblicità, il jingle è un motivetto fortemente caratterizzato il cui scopo è molto spesso quello di esprimere la mission aziendale (qualora cantato, come “Belté, Beltè, più buono proprio non ce n’è”) e di rendere facilmente memorizzabili il prodotto o la marca nel momento in cui accompagna in chiusura il logo aziendale (come le due note sorde per il marchio AUDI). Esso si differenzia dagli altri tipi di sonoro per alcune sue caratteristiche specifiche: può non sonorizzare tutto lo spot; è composto per quello specifico prodotto o marchio; la sua funzione è quasi sempre paratestuale rispetto allo spot vero e proprio; nella maggioranza dei casi funge da pay-off sonoro e pertanto, alla stessa stregua di questo, accompagna il marchio per lunghi periodi di tempo.

Molto spesso i jingle sono stati tacciati di eccessiva semplicità e associati a un tipo di pubblicità datata (del tipo di Carosello, per intenderci) e per questo il loro uso (dopo essere stato un abuso) è abbastanza scemato. Ciò non toglie che nei casi in cui è ancora utilizzato esso riesca ancora a cogliere gli obiettivi per cui è pensato, in particolare quello di soddisfare l’esigenza di personalizzazione e memorabilità del messaggio.

 

Il maxi-jingle. In alcune pubblicità si trovano brani che posseggono caratteristiche simili al jingle (la semplicità, la memorabilità, l’originalità, l’avere ad oggetto il prodotto o il brand) ma non ne condividono la brevità, e il brano può durare anche per l’intera durata dello spot. Anche se comunemente accade, non si può considerare quest’ultimo tipo di sonoro alla stregua di un jingle, perché laddove il jingle ha la funzione di “firma” sonora dell’azienda, il maxi-jingle assume, invece, un ruolo di commento/elemento narrativo.

In alcuni casi eccezionali i maxi-jingle non sono composti per lo specifico annuncio, ma sono ad esso adattati da brani preesistenti: è il caso del fortunato “Tico Tico” che nello spot Tic Tac, interpretato da Michelle Hunziker, diventa il maxi-jingle La vita fa tic tac. La particolarità di tale tipologia consiste nella forte personalizzazione del brano rispetto al prodotto o al testo: il maxi-jingle rinvia, infatti, al primo commentandone alcune qualità attraverso le parole del testo cantato (come nell’esempio precedente), o commenta le immagini come nel caso dello spot Chicco in cui, al brano Vita spericolata di Vasco Rossi, sono associate immagini di una famiglia – genitori con figli molto piccoli – la cui vita piena di imprevisti e fatiche causati dai bambini risulta essere spericolata in ben altro senso, provocando un effetto quasi comico.

Anche in questo caso può verificarsi una sorta di persistenza e ripetizione del sonoro qualora lo stesso brano diventi leitmotif per diversi spot di una stessa campagna: è il caso storico di numerosi spot Nutella degli anni Settanta o della Barilla, che utilizzò negli anni Novanta, per diverso tempo, un brano di Vangelis divenuto poi, proprio grazie a questo, molto noto.

 

Il sonoro decorativo. Nei casi sopra descritti il sonoro ha un ruolo importante nell’ambito delle dinamiche comunicative dello spot. Non sempre però questo si verifica: talvolta si sceglie di proposito di metterlo in secondo piano rispetto al resto, utilizzandolo semplicemente come “tappezzeria” di suoni. Un sonoro di questo tipo non deve imporsi alla percezione dell’ascoltatore: al contrario, è scelto proprio per passare inosservato mentre riempie e decora l’ambiente visivo e verbale dello spot.

Il sonoro decorativo è presente nel testo pubblicitario solo per non far apparire vuota la sua manifestazione udibile, che sarebbe insopportabilmente silenziosa rispetto al contesto e troppo da impatto, come si vedrà più avanti. Questo tipo di “tappeto sonoro” decorativo è funzionale quando si vuole orientare l’attenzione dei fruitori esclusivamente alle componenti visivo-verbali del comunicato pubblicitario anche se, come sarà meglio specificato in seguito,[16] non è del tutto inefficace nell’orientare il senso complessivo del messaggio.

 

Il sonoro da impatto. Diverso è il caso del sonoro da impatto che, indipendentemente dal fatto che sia stato prodotto appositamente per lo spot o derivi da un sonoro preesistente (ad esempio un brano di musica pop), partecipa al testo pubblicitario ed ha funzione di elemento “narrativo” o di commento (in questa categoria, molto ampia, rientra anche il maxi-jingle di cui si è già parlato). In questo caso, un elemento che fortemente caratterizza il sonoro da impatto – soprattutto allorché si tratti di brani musicali veri e propri –, è la contemporaneità della composizione rispetto all’epoca di messa in onda dello spot. La funzione principale di una musica “dal presente” è l’aggancio alla contemporaneità, la volontà di definire il prodotto pubblicizzato come assolutamente nuovo e contemporaneo. Scegliendo di utilizzare musiche recentissime, si ottiene il risultato di esaltare la riconoscibilità e la memorabilità del comunicato, di indicare che l’azienda o il prodotto sono ancorati al presente, di evidenziare – quando il prodotto è particolarmente indirizzato ad un target giovanile e la hit è quella giusta – le affinità tra l’offerta e i possibili consumatori. In ogni caso il fattore contemporaneità non è scontato: dipende dalla competenza enciclopedica dell’ascoltatore, dagli aspetti musicali del brano (un sound elettronico piuttosto che acustico) o ancora dalla conoscenza pregressa del brano presso l’ascoltatore. Inoltre, per alcuni particolari target che consumano notevoli quantità di musica, ad esempio i teen-ager, l’obsolescenza (e la conseguente definizione di “vecchio”) è un processo più accentuato che in altri, per cui potrebbe venir percepito come tale un brano uscito da pochi mesi. È il caso, ad esempio, delle pubblicità dei gestori di telefonia mobile, che dovendo rinnovare continuamente le proprie offerte e rivolgendosi a gruppi di consumatori generalmente giovani, si adeguano molto velocemente al gusto musicale corrente (al cantante, al brano di successo), in modo da sfruttare l’elemento “contemporaneità-novità-ultima offerta”.

Il sonoro assente. Sonorizzare una pubblicità con il silenzio, o con una componente sonora estremamente limitata, è un artificio retorico che assolve compiti ben precisi, spesso meglio del suono stesso. In un ambiente saturo di stimoli uditivi, e nel contesto del media audiovisivo – televisione in primis – in cui il silenzio è l’eccezione, le valenze del silenzio in pubblicità possono essere molteplici. In qualche caso ha lo scopo di sottolineare l’autenticità della situazione come, ad esempio, nelle prime pubblicità-intervista del sapone DOVE, che creavano l’effetto di realismo quotidiano in un ambiente casalingo del tutto privo di artifici scenografici e con personaggi femminili assolutamente anonimi. Il realismo viene simulato attraverso la ricreazione di un silenzio “artificiale”, senza nemmeno il suono ambientale, o attraverso gli impercettibili suoni che “amplificano” il silenzio sullo sfondo: il ticchettio di una sveglia, una goccia che cade. In altri casi ha la funzione di dare evidenza assoluta a parole o isolati suoni particolarmente significativi per lo spot. Può essere utilizzato al fine di accentuare il contrasto con il flusso sonoro che l’ha preceduto e che ad esso seguirà, catturando così all’istante l’attenzione dell’ascoltatore, o come elemento narrativo (la città è deserta, il tempo si è rasserenato), o ancora come espediente dimostrativo che gioca di rimandi con le immagini o il testo (come accade nel caso di “Silenzio. Parla Agnesi”).

 

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Le funzioni del sonoro

 

Impatto. La prima delle funzioni di Fabris che intendiamo esaminare, l’impatto, è considerata fondamentale per l’instaurazione del processo comunicativo: se l’annuncio non “aggancia” nei primi 3-5 secondi, è molto probabile che sia ignorato del tutto. In un mare magno di annunci pubblicitari in concorrenza tra loro e con gli alti costi degli spazi TV, per il pubblicitario diventa indispensabile attirare in modo deciso l’attenzione per avere la possibilità di entrare in contatto con il target. A livello della colonna visiva, vi sono vari accorgimenti che vengono adottati: un’apertura “equivoca” che viene disambiguata solo nel corso del testo; i titoli di testa di un (finto) notiziario, molto spesso riportanti anche la dicitura «Edizione straordinaria», e così via. A livello della colonna sonora, il brano musicale o i suoni presenti possono creare o incrementare l’impatto dello spot in diversi modi: attraverso una dinamica diversificata (volume maggiore o minore) rispetto alle trasmissioni precedenti; usando una musica dal sound aggressivo; con l’uso del contrasto tra silenzio e suono (è il caso dello spot della Volkswagen Polo X, del 2004, che si apre con un’inquadratura completamente silenziosa in cui degli uomini in tute imbottite testano il comfort dell’abitacolo dell’auto: l’inquadratura è poi seguita dalla dirompente Lucky Lipstick dei Surferosa, e l’interruzione del flusso sonoro dei programmi che precedono lo spot crea una sorta di attesa, una sospensione prontamente risolta dall’entrata in scena del brano a tutto volume e dalla disambiguazione dell’incipit).

 

Interesse. Suscitare l’interesse del nostro target, incuriosirlo verso ciò che stiamo per dirgli, è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) affinché la nostra comunicazione sia efficace. Anche se a livello visivo, sonoro, narrativo il nostro spot ha catturato l’attenzione momentanea del pubblico, non significa che poi sarà considerato interessante. Per questo occorre definire precisamente il target e avere un’idea precisa degli interlocutori e delle loro attese: se sappiamo a chi stiamo parlando sarà più facile scegliere gli argomenti e le chiavi di linguaggio più adatte. E una delle chiavi di linguaggio può essere proprio la musica: il target viene intercettato passando per i suoi gusti musicali, e in questo senso si può parlare da ora di musica come “musica del consumatore”. Concretamente, la scelta della musica può orientare già a livello inconscio la percezione dello spettatore: se conosce il brano che sente o ne rimane colpito perché incontra i suoi gusti e soddisfa le sue attese, sarà più probabile che sia indotto a valutarlo favorevolmente e ad accoglierne i contenuti e le promesse.

 

Informazione. Dopo i momenti dell’impatto e dell’interesse, il processo comunicativo della pubblicità prevede che entri in gioco la capacità del messaggio di veicolare le giuste informazioni, in modo da fornire un ancoraggio logico alla decisione d’acquisto, delle argomentazioni razionali che giustifichino la scelta del prodotto. I benefit di un prodotto possono essere illustrati sicuramente per mezzo dell’immagine, ma anche con l’ausilio della musica. In questo senso la cantilena “Beltè, Beltè, più buono proprio non ce n’è”, è una pura e semplice trasposizione in musica dei vantaggi promessi al consumatore, con la differenza che, se la stessa frase fosse stata solo pronunciata da un attore, lo spot sarebbe stato probabilmente molto meno incisivo: da un lato perché lo slogan è più facilmente memorizzabile quando associato ad una musica con una scansione ritmica e tonale molto semplice, dall’altro per l’andamento leggero e infantile della melodia, che conferisce una connotazione piacevole e semplice al messaggio che si intende veicolare, creando tutti i presupposti per una disposizione positiva verso il prodotto.

 

Identificazione. Ma non di sole informazioni vive il consumatore: queste devono essere la base per coinvolgerlo emotivamente, per generare empatia trasponendo il discorso dal piano razionale a quello affettivo. Il processo di identificazione per cui un individuo sente di vivere in prima persona le situazioni rappresentate sviluppa un atteggiamento favorevole nei confronti del prodotto, compiendo così un primo passo verso la convinzione all’acquisto. Ora, processi di identificazione possono essere innescati in vari modi nel testo pubblicitario. L’accorgimento adottato a livello sonoro per favorire le dinamiche di identificazione può sfruttare gli stessi elementi che servono ad attirare l’interesse del target: la ricreazione di un ambiente sonoro ad esso familiare di cui condivida i riferimenti socio-culturali. Lo spazio sonoro strutturato in tal modo, oltre a catturarne l’attenzione, avvolge il soggetto-tipo del target in una dimensione conosciuta, rassicurante: lo fa sentire come “a casa”. Innescare un processo identificativo attraverso la musica è probabilmente più semplice in casi in cui il target dello spot sia abbastanza circoscritto o comunque ben definito (per esempio i giovani dai 18 ai 30 anni) dal momento che i riferimenti socio-culturali saranno (almeno in linea di massima) omogenei al suo interno.

 

Comprensione. È probabilmente una considerazione ovvia, ma dopo che il consumatore ha ricevuto le informazioni deve anche comprendere con immediatezza il senso e lo spirito della pubblicità. Si potrebbe dunque affermare che tutto ciò che può risultare oscuro o di difficile comprensione va evitato in modo assoluto a tutti i livelli di significazione, anche quello musicale. Ma non è proprio così. La condizione del sincretismo, di cui il messaggio pubblicitario televisivo gode, può rendere maggiormente “comprensibile” un flusso sonoro che non lo sarebbe se estrapolato da quel contesto. Vale per tutti l’esempio cinematografico forse maggiormente convincente: quello Shining in cui la Musica per archi, percussioni e celesta (1950) di Béla Bartók non risulta affatto di difficile comprensione, allorché pare che lo sia invece – almeno per molti ascoltatori contemporanei – in sala da concerto o, peggio ancora, all’ascolto di una registrazione. Il senso di sospensione che la musica, indubbiamente, comunica, mal si coniuga con le abitudini fruitive degli odierni ascoltatori di musica pura, ma accompagna bene e esalta la dimensione di suspense su cui la trama narrativa costruisce la propria forza. Sotto questa luce, è chiaro che la dimensione della comprensibilità, sul piano musicale, è fatta di continui rimandi con quello visivo e testuale, e che è proprio in quel potere comunicativo dello specifico sonoro – a cui abbiamo già fatto riferimento e su cui torneremo più avanti – che il suono trova la forza per contribuire alla comprensione globale del messaggio pubblicitario.

 

Credibilità. Come può, la colonna sonora, sostenere la credibilità del messaggio pubblicitario? Probabilmente sono due le dimensioni in cui ciò può avvenire. La prima riguarda, più che il messaggio stesso, la situazione che lo spot propone: se una festa, allora la musica sarà adeguata alla circostanza, a seconda che si tratti di una festa giovanile, di bambini o tenuta presso una corte settecentesca. È il caso, dunque, di qualsiasi colonna sonora diegetica, che si verifica allorché la fonte sonora è presente o implicita nella situazione mostrata dalle immagini (orchestra, cantante, impianto Hi-Fi in funzione, ma anche passi sul selciato, rumori di porte che sbattono). La seconda, più indiretta ma stavolta legata direttamente al messaggio pubblicitario, si appoggia sull’effetto che l’ascolto di particolari sonorità può avere sull’ascoltatore: tranquillità, sicurezza (suoni tenuti, di registro medio-basso) o eccitazione, allegria (suoni più brevi, una maggiore densità sonora, un registro più acuto). È il caso delle colonne sonore extra-diegetiche, che possono anche essere indifferenti al tone of voice proposto dalle immagini, ma spesso non lo sono, e sono intese a orientare, con il loro apporto di senso, la percezione e la disposizione del fruitore.

 

Coerenza. Per coerenza si intende la congruenza che deve esistere tra lo stile comunicativo e il prodotto cui esso vuole applicarsi. E la coerenza è richiesta al messaggio nella sua globalità, come insieme di segni che contribuiscono a dar luogo ad una comunicazione dotata di senso unitario. Non è così semplice individuare quale possa essere il ruolo della colonna sonora nella costruzione di questa coerenza. Può trattarsi del contributo alla costituzione di un tone of voice integrato, coerente ai contenuti veicolati, o ancora dell’apporto che l’audio può fornire in termini di economia narrativa – come si vedrà più avanti – per la costituzione di un insieme di segni che “risuonano” tra loro. Ma più generalmente sarà il contributo della colonna sonora alla realizzazione e al rispetto di una coerenza a priori, progettata dal comunicatore e non necessariamente fatta di segni tra di loro integrati o “risonanti”, ma anche dissonanti o dal differente tone of voice: un flusso disteso di archi e le immagini di un conflitto, il mare allegro dell’estate e lo scuro suono di una marcia funebre (magari per esprimere il messaggio “Il turismo uccide l’ambiente”).

 

Convinzione. È il risultato, non sempre così scontato, del raggiungimento di uno o più obiettivi tra quelli già elencati. Se il messaggio impatta, interessa, informa, è coerente e credibile, allora può convincere. Il che non vuol dire già che si acquisti, ma, forse, si farà passaparola e qualcun altro acquisterà al posto nostro. Cosa può la colonna sonora per questo scopo? Forse lo abbiamo già detto più sopra, ma certo si potrebbe aggiungere quello che gli antichi ci suggerirebbero: una fede mai perduta – anche se oggi vissuta forse più inconsciamente – in quel potere magico e incantatorio della musica, già noto dal canto delle Sirene e così importante nel suono della lira di Orfeo: se le sue corde sono riuscite a convincere Caronte a traghettarlo nel regno dei morti per riprendere la dolce Euridice, falliranno forse nell’intento di farci comprare un sapone?

 

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I contributi di senso del sonoro

 

Come si è notato nell’esame delle otto variabili individuate da Fabris, quelle maggiormente suscettibili di influenza da parte della colonna sonora sono le prime quattro, le “i”. Delle seconde quattro variabili, è stato più facile dire cosa sia meglio evitare per non rischiare di rendere inefficace lo spot, che individuare delle tecniche che le potenzino. Ciò perché queste variabili attengono più alle caratteristiche della campagna e alla sua validità, che non alle risposte del destinatario della comunicazione, sulle quali il sonoro ha maggior capacità di influenza.

Accettando qui, dunque, la proposta di Karbusicky considerata più sopra, e assegnando alla funzione indicale il ruolo preponderante che le spetterebbe, quel che dobbiamo chiederci ora è: attraverso quali elementi la musica ci mostra ciò di cui sta parlando? E in che modo quel che la musica ci mostra riesce a influenzare le risposte del destinatario della comunicazione? Non avremo difficoltà nel rispondere se riconsideriamo brevemente quelle dimensioni e i relativi tratti del sonoro che abbiamo già definito. Ritornando al nostro obiettivo di partenza – definire come e cosa il sonoro aggiunge o modifica all’interno del messaggio audiovisivo, nel nostro caso pubblicitario – consideriamo, ad esempio, nell’ambito della dimensione della sonorità, la tessitura. L’incidenza della tessitura sul messaggio audiovisivo è legata principalmente al concetto, questa volta in accezione ampia, di “altezza”. La frequenza dei suoni è determinata anche dalle dimensioni dei corpi che li producono, e l’esperienza comune ci insegna che solitamente troveremo in alto le cose più piccole: gli uccelli, le foglie, le gocce di pioggia, l’aria (addirittura invisibile e inafferrabile). A guardar bene, tutto il mondo che ci circonda è organizzato, in direzione verticale e in senso ascendente, per dimensioni decrescenti: cose più piccole poggiano solitamente su cose più grandi, e ogni montagna va via via restringendosi man mano che si sale. I suoni acuti sarebbero quindi associati alle cose alte, e anche la luce, ancora più immateriale e inafferrabile dell’aria, è spesso espressa musicalmente con tessiture estreme all’acuto. Forse per questo il suono del tuono, che viene dall’alto ma è grave, forte e “pesante”, e contrasta così fortemente con l’esperienza più diffusa circa i “suoni che vengono dall’alto”, incute tanto timore.

Questo senso di leggerezza può essere “addizionato”, in un contesto audiovisivo, ad un messaggio più strettamente informativo riguardo al quale tale leggerezza, mostrata attraverso il suono, rappresenta una qualità positiva (positiva, senz’altro, se lo scopo del messaggio sarà quello di incentivare all’acquisto del prodotto, non di sfavorirlo). Neanche a dirlo, il comunicatore potrà giocare per contrasti, addizionando leggerezze sonore a pesantezze o durezze visive o testuali: occorrerà avere un fine chiaro del messaggio, conoscere il tipo di ascoltatore cui ci si rivolge e confidare che egli capisca e accetti il gioco semantico, che sia disposto a sopportare la maggiore attivazione derivante da un messaggio che complessivamente presenterà più elementi di novità e dunque un maggiore lavoro percettivo, cognitivo e interpretativo.

Ritornando alla nostra dimensione della sonorità, possiamo ampliarne l’esame aggiungendo qualche considerazione legata all’intensità: la leggerezza di una tessitura acuta avrà un senso diverso se associata ad una intensità bassa o alta. L’intensità è dal punto di vista fisico una maggiore o minore energia posseduta e trasmessa (non solo al nostro organo uditivo ma al nostro intero corpo) attraverso l’aria che ci circonda. Ed energia vuol dire forza, peso, e la forza può sostenere ma anche abbattere e schiacciare. Così una tessitura acuta e forte può risultare violenta e fastidiosa, o estremamente eccitante, forse ancora una volta perché gli oggetti piccoli, che producono suoni acuti e “stanno in alto”, solitamente, sempre per ragioni fisiche, producono suoni di bassa intensità (lo sanno bene i costruttori di pianoforti, che per i suoni acuti hanno predisposto ben tre corde che vibrano simultaneamente per ogni nota, al posto dell’unica corda utilizzata per i suoni gravi).[17] Al contrario, una bassa intensità associata ad una tessitura acuta può esaltare il senso di leggerezza (che però rischia di diventare “mistero” se troppo debole), in modo molto caratteristico se associata, inoltre, ad una rugosità fine a basso rilievo “atomico”: la leggerezza diventerà quella dell’aria – questa volta con la possibilità anche di toccare una dimensione iconica nell’imitazione del suono del vento – tanto più se il flusso sonoro sarà principalmente continuo (e siamo passati, così, dalla dimensione della sonorità a quella delle articolazioni).

Riguardo alle identità – melodiche, ritmiche, per limitarci temporaneamente a quelle che abbiamo già descritte – il loro apporto sarà innanzitutto quello di offrire la percezione di frammenti sonori dotati di un inizio ed una fine, e in questo senso dar luogo a movimenti formali “completi”. Di questi nuclei formali l’ascoltatore potrà seguire le movenze: rapide salite o discese, o un lento costruirsi ed estinguersi; suoni che tendono a sovrapporsi in dissolvenze e ombreggiature varie, o eventi sonori netti che parlano di chiarezza e limpidezza, forse in qualche caso anche di separazione, se la discontinuità interna della figura è alta; figure minimali o ampie, che marchiano o trasportano. Ma soprattutto, la loro presenza chiamerà in causa le capacità cognitive, chiederà e mostrerà organizzazione, laddove la loro assenza otterrà un atteggiamento dell’ascoltatore più squisitamente sensoriale e percettivo, lasciando intendere che non c’è un inizio e non c’è una fine, che in ogni istante è tutto lì. O, cambiando registro: che quello che dovevi sapere l’hai già saputo, e se ti fa sentire bene – e vuoi che duri più di 30 secondi – non ti resta che acquistarlo.

Di facile comprensione è la lettura del senso di cui possono essere portatori i due modelli di apertura (punteggiatura) che abbiamo esposti sopra. Il primo modello, quello in forma di break (con segnali di apertura), può essere usato quando si vuole richiamare l’attenzione in fase iniziale e poi mostrare un meccanismo, che non ha propriamente un inizio e una fine ed è così accompagnato, nel seguito, da una musica che rinuncia ad uno sviluppo; il secondo, quello progressivo per strati, quando c’è un plot e una rivelazione, un disvelamento, una soluzione finale, per accrescerne l’attesa e rinforzare il senso di completezza finale (in questi casi, la presenza di identità melodiche e ritmiche è più marcata proprio nella parte conclusiva della fabula).

Ancora, riguardo alla sintassi, proviamo a definire quali apporti di senso possa procurare la ripetizione. Come abbiamo già detto, il riconoscimento di frammenti ripetuti è facilitato dalla messa in gioco di identità, e se le identità sono tali il loro ricorrere procurerà quel momento di riposo che ben compensa lo sforzo della prima “messa in forma” (ricostruzione cognitiva della forma). Il gioco di novità e ripetizione è legato al piacere dell’ascolto, e un’identità ripetuta otterrà l’effetto di alleggerire lo sforzo necessario alla ricezione del flusso sonoro, lasciando spazio al contenuto informativo – visivo o testuale – del messaggio. La prima comparsa dell’identità funzionerà quindi come fattore di impatto e interesse (per tornare agli indicatori di Fabris) e le sue ripetizioni “lasceranno passare” più agevolmente le informazioni legate al prodotto. Inoltre la ripetizione, e soprattutto la ripetizione di identità melodiche molto brevi, è un tratto molto esplicito di alcuni generi musicali, ad esempio la New Age. E dunque il fattore ripetizione, si potrebbe affermare, avrà anche l’effetto di creare identificazione tra un certo pubblico – potenzialmente fruitore di quel genere musicale – e il prodotto.

A proposito di questa possibile identificazione, vogliamo concludere rimarcando che questa identificazione può essere intesa in due modi diversi. Possiamo supporre che l’ascoltatore riconoscerà i tratti di un certo genere musicale, a lui affine, e trovandolo legato ad un prodotto specifico si identificherà con il prodotto stesso. Questo tipo di identificazione presuppone il riconoscimento del genere, dunque una serie di preconoscenze da parte del soggetto. Da un’altra prospettiva, possiamo ipotizzare che l’ascoltatore non conosca il genere musicale ma che, almeno nel quadro che di lui si è fatto il comunicatore, sia predisposto ad accoglierlo favorevolmente. Questo tipo di ascoltatore sentirà la ripetizione, sarà condotto in un processo comunicativo multimediale come quello prima descritto (attivazione sul sonoro e poi alleggerimento) e stabilirà ugualmente un rapporto positivo nei confronti della comunicazione nel suo complesso. Quel che qui sosteniamo è che sia il fattore ripetizione a portare l’ascoltatore (predisposto) ad identificarsi con il senso espresso da una comunicazione musicale nel genere della New Age – anche se non conosciuto esplicitamente – e che non sia dunque indispensabile il riconoscimento del genere perché questa identificazione avvenga. Crediamo infatti che siano proprio i caratteri del sonoro a dare senso alla comunicazione musicale, e non l’attribuzione, spesso incerta, di un brano a un genere o a un altro. Come dire che un brano ha un senso New Age perché ha certe caratteristiche sonore, e non che ha un senso New Age perché è New Age. C’è una differenza, appunto, perché la seconda ipotesi implicherebbe che un senso alla musica sia dato solo in presenza di preconoscenze (in questo caso la conoscenza del genere). È proprio questo a testimoniare quella fede – di cui si è fatto cenno nella Premessa – nel potere comunicativo che i suoni (le forme sonore) hanno di per sé, potere che deriverebbe – come si è appena cercato di esemplificare – dal loro legame con il mondo reale in cui l’uomo vive, le sue forme e le sue manifestazioni.

 

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Conclusioni

 

Il cammino di osservazione e riflessione sin qui percorso, attraverso le dimensioni, i tipi, le funzioni, gli apporti di senso del sonoro, non lascia dubbi circa il fatto che i rapporti tra suono e immagine/parola nello spot pubblicitario siano di primaria importanza, capaci di cambiare la natura del messaggio audiovisivo e vadano dunque governati in modo consapevole e mirato. Le esperienze compiute sul terreno didattico, da cui questo lavoro trae non pochi spunti, confermano che al suono è riconosciuto il potere di “orientare” il significato globale del messaggio pubblicitario. Gli studenti, chiamati a sonorizzare spot privi dell’audio autentico, suggeriscono interpretazioni diverse della stessa traccia visiva e portano alla superficie potenzialità di senso alternative, attraverso sincretismi audio/video talvolta più convincenti, per un determinato target, degli originali. Il messaggio, senza suono, sembra essere più povero, privo di quegli indici espressivi di cui il prodotto può invece approfittare, appropriandosi di alcune delle qualità espresse, mostrando in anticipo gli effetti finali di benessere interiore, allegria, potenza e altro, promessi e reificati nel prodotto stesso.

[1] Il presente articolo è pubblicato, con alcune integrazioni e modifiche, sui Quaderni del Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Salerno, 2006-2007.

[2] Anche dal punto di vista dell’acustica, tutto sommato, le cose non stanno poi molto meglio. Indubbiamente, entro certi limiti, la distinzione fisica tra onda sonora periodica (quello che comunemente chiamiamo suono) e onda sonora aperiodica (quello che comunemente chiamiamo rumore) ha una sua validità, ma i limiti ci sono, e la battuta di Giuseppe Di Giugno – pioniere dell’informatica musicale in Italia e in Francia – rende benissimo l’idea: «Se questa distinzione fosse assoluta, allora la Quinta Sinfonia di Beethoven sarebbe un rumore, perché è certamente un fenomeno sonoro aperiodico».

[3] G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, Angeli, 1992.

[4] Michel Imberty, Suoni Emozioni Significati. Per una semantica psicologica della musica, CLUEB, Bologna, 1986.

[5] La trattazione di questo paragrafo deriva dal lavoro svolto nel corso di alcuni cicli di laboratori di Semiotica applicata al linguaggio audiovisivo, svolti in collaborazione con la prof.ssa Anna Cicalese negli anni accademici 2004-2005 e 2005-2006, nell’ambito del corso di laurea in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Salerno. L’approccio all’analisi delle dimensioni del suono trattate è dunque volutamente circoscritto agli aspetti principali delle tre dimensioni sonore, per ovvi motivi didattici, ma ben si presta – proprio per questa sua limitazione – agli scopi del presente scritto.

[6] Voce e accompagnamento, ma anche orchestra sinfonica, o ambiente sonoro del bosco, ecc.

[7] In realtà, anche nel caso di un unico suono che presenti variazioni vistose nei tratti della materialità, si potrebbe parlare di articolazione, ma si tratta di un caso limite che non indebolisce la distinzione delle due dimensioni così concepite (distinzione che ha valenza epistemica, laddove le due dimensioni si trovano quasi sempre sovrapposte nei casi reali).

[8] Si pensi, come esempio estremo, alle esperienze della serialità integrale a partire dalla metà del Novecento.

[9] Impossibile evitare di esplicitare, a questo punto, come, nell’ambito di queste riflessioni, si venga delineando l’importanza delle funzioni che la presenza del tema ha avuto nello sviluppo della musica occidentale sino agli inizi del XX secolo, proprio in rapporto alla possibilità di rintracciamento dei nessi formali in opere dalla durata via via più estesa.

[10] Si noti ancora una differenza rispetto alla nozione classica di sviluppo, che non è inteso qui solo in direzione accrescitiva (aumento di complessità, densità, ecc.) ma anche nella direzione opposta di una decrescita di valori. Si potrebbe forse obiettare che a questo punto il concetto di cui si parla non è tanto quello di sviluppo quanto quello di trasformazione, tuttavia la trasformazione non è per forza direzionale (una cosa si può trasformare in un’altra cosa, poi in un’altra, secondo la formula A®B®C) mentre lo sviluppo lo è sempre (A®A1®A2®A3).

[11] Si tratta di un fenomeno molto importante: si pensi a quel che è successo alla musica occidentale all’inizio del Novecento, e soprattutto al lavoro di Debussy.

[12] Va detto che Peirce parla però di “icona”, laddove l’espressione “segno iconico” è già frutto di una rielaborazione del suo pensiero.

[13] Vladimir Karbusicky, Il segno indicale in musica, in Luca Marconi e Gino Stefani (a cura di), Il senso in musica. Antologia di Semiotica musicale, CLUEB, Bologna, 1987, pp. 83-92.

[14] Ivi, pp. 84-5.

[15] C. S. Peirce, Draft of ‘Grand Logic’, 1893. Mia la traduzione.

[16] Cfr. le considerazioni fatte più sopra sull’indicalità del segno sonoro.

[17] Inoltre, la bassa intensità percepita dei suoni acuti è dovuta anche all’andamento della curva di udibilità.